Il Colpo di Stato dell’Antinori del 1711 e la mancata successione al Granducato del Principe Giuseppe de’ Medici di Toscana di Ottajano
INTRODUZIONE
La vicenda della successione toscana nei primi decenni del Settecento costituisce uno degli episodi più significativi della storia europea, nonché uno dei più emblematici scontri tra il diritto feudale imperiale e le nuove dottrine del giusnaturalismo moderno. Non si trattò soltanto di una disputa dinastica: fu un conflitto di paradigmi giuridici e politici, destinato a determinare la sorte della Casa Medici e a collocare il Granducato di Toscana al centro della diplomazia internazionale.

La crisi si aprì all’indomani della morte del principe Ferdinando (1713), quando apparve evidente che la linea granducale diretta si stava avviando all’estinzione. Secondo i diplomi imperiali di Carlo V (1530) e di Massimiliano II (1569), nonché per la Bolla Papale di Pio V (1569) per l’investitura della Toscana ai Medici tuttora valida, il Granducato, feudo immediato dell’Impero, spettava in tal caso all’agnato maschio più prossimo in infinito della Casa Medici, vale a dire il Principe Giuseppe de’ Medici di Ottajano, discendente del ramo collaterale stabilito a Napoli. Cosimo III, inizialmente, non mise in discussione questa regola, tanto che, come risulta dalle comunicazioni del suo segretario di Stato abate Antonio Gondi con l’ambasciatore francese Gergy, egli manifestò l’intenzione di sostenere i diritti di Giuseppe come erede legittimo al trono. (vedi pagina XLVI) in (Recueil des instructions données aux ambassadeurs et ministres de France : depuis les traités de Westphalie jusqu’à la Révolution française. XIX, Florence. Modène. Gênes. 19 / publ. sous les auspices de la commission des archives diplomatiques au ministère des affaires étrangères ; par Edouard Driault
Tuttavia, nel 1711 il senatore Nicolò Francesco Antinori, giurista, presidente dell’Ordine di Santo Stefano e uomo di fiducia del Granduca, presentò a Cosimo terzo il suo celebre Discorso sopra la successione di Toscana, (ASF Auditore poi segretario delle riformagioni f. 236 Memorie e scritture sopra la libertà di Firenze e la successione nella estinzione della R. famiglia de’ Medici.) destinato a cambiare il corso degli eventi.
In esso, Antinori abbandonava deliberatamente le categorie del diritto feudale e si affidava a quelle della ragion di Stato e della giurisprudenza giusnaturalistica moderna. A suo giudizio, la salus reipublicae imponeva di escludere gli agnati, giudicati incapaci di mantenere l’unità del Granducato, e di orientarsi piuttosto verso un successore straniero in grado di garantire stabilità.
Il testo, arricchito da citazioni di Clapmar, Arnisaeus, Besold, Grozio e Pufendorf, non nascondeva però un tono di diffidenza e rancore verso la linea di Ottajano. Antinori scriveva che, dopo quasi due secoli di dominio mediceo, trasferire la Maestà granducale “in una famiglia rimasta allora, e poi vissuta sempre in condizione di privata” avrebbe significato precipitare in un “abisso di oscurità” lo splendore e la dignità della casata, causando emulazione fra i nobili, sedizioni, l’intervento di potenze straniere e infine la desolazione dello Stato. Parole che rivelavano non solo un ragionamento dottrinale, ma il riflesso di un antico sentimento di ostilità delle grandi famiglie fiorentine verso i Medici.

Il discorso di Antinori trovò subito l’appoggio decisivo del segretario di Stato Carlo Antonio Gondi, presidente del Consiglio di Stato (Riflessioni dell’Abate Gondi sopra il Lodo di Carlo in ASF Miscellanea Medicea f.590, busta 2). In breve, i senatori e la classe dirigente si compattarono intorno alla nuova dottrina, esercitando sul Granduca una pressione tale da rendere il governo ingovernabile se egli avesse insistito nel difendere i diritti di Giuseppe. Per questo il Discorso non può essere ridotto a un contributo erudito: esso fu un vero colpo di Stato istituzionale, con cui il Senato e i suoi capi imposero al sovrano un indirizzo contrario al diritto imperiale.
LA NOMINA DELL’ELETTRICE PALATINA A SUCCESSORE EVENTUALE AL GRANDUCATO
Cosimo III, stretto tra il dovere di rispettare i diplomi imperiali e l’impossibilità di governare contro la sua stessa classe dirigente, cercò una via d’uscita. Il 26 novembre 1713, con motu proprio approvato dal Senato all’unanimità, nominò la figlia Anna Maria Luisa, Elettrice Palatina, come successore eventuale. Lo storico Riguccio Galluzzi interpretò questa scelta come un espediente: Cosimo sperava che l’Elettrice, una volta salita al trono, potesse designare potesse designare Giuseppe di Ottajano come erede universale dei beni allodiali Medicei, poiché gli sarebbero stati indispensabili per poter mantenere il governo dello Stato, come meglio si vedrà più avanti. Ma agli occhi dell’Imperatore, quell’atto rappresentava una foris factura, ossia una felonia feudale.

Secondo il diritto feudale, l’Imperatore non poteva tollerare una simile violazione senza compromettere la propria autorità. Se Carlo VI avesse accettato l’atto di Cosimo, sarebbe decaduto egli stesso dalla dignità di dominus feudorum, poiché avrebbe ammesso che un vassallo potesse modificare a piacere le disposizioni imperiali. L’Imperatore fu dunque costretto a rompere con Cosimo III, pena la perdita della sua stessa legittimità imperiale.
IL RICONOSCIMENTO IMPERIALE DI GIUSEPPE DE’MEDICI DI TOSCANA
Per assolvere però ai propri doveri e non incorrere egli stesso in foris factura, Carlo VI riconobbe ufficialmente la linea di Ottajano. Nel diploma solenne sottoscritto a Lussemburgo il 12 giugno 1720, conservato nel Regio Archivio di Corte e nell’Archivio Civico di Cagliari, l’Imperatore nominò Giuseppe de’ Medici di Toscana, Principe di Ottajano, Intendente generale degli eserciti imperiali e suo plenipotenziario per la consegna del Regno di Sardegna ai Savoia. Nella formula ufficiale Giuseppe veniva qualificato espressamente come “di Toscana”, riconoscimento che equivaleva a legittimarlo come Principe ereditario di Toscana. Con questo atto, Carlo VI non solo riaffermava i diritti della Casa Medici, ma si tutelava anche da possibili accuse degli Elettori di non aver rispettato la legge feudale.
A questo dato giuridico si aggiungeva un aspetto di primaria importanza patrimoniale: Giuseppe de’ Medici di Toscana di Ottajano, oltre ad essere riconosciuto dall’Imperatore come erede dinastico, era anche l’erede designato dei beni allodiali medicei in virtù dei fedecommessi istituiti a partire dal testamento di Leone X e rinnovati dai successivi granduchi, descritti nell’archivio privato della Casa dei Medici di Toscana di Ottajano. Se tali beni fossero rimasti in mano ai Medici attraverso Giuseppe, l’alto dominio dell’Impero sulla Toscana sarebbe risultato molto più saldo e stabile, e il conflitto con la Spagna sulle questioni toscane si sarebbe potuto allontanare o quantomeno ridimensionare.
L’ARCHIVIO DI FAMIGLIA DEI MEDICI DI TOSCANA DI OTTAJANO
L’inventario dei seguenti documenti presenti nell’archivio di famiglia da una rapida idea al nostro lettore della portata e dell’importanza dei diritti dinastici spettanti a S.A.R il Granduca titolare Giuseppe de’Medici di Toscana di Ottajano

“Numero due lettere dell’imperatore Carlo VI, dirette all’eccellentissimo principe di Ottajano d. Giuseppe de’ Medici nel 1720”, cc. 4, in latino.
11) “Privilegio in pergamena di Carlo VI relativo alla nomina di d. Giuseppe de’ Medici a primo generale della sua armata, e ministro plenipotenziario nel Regno di Sardegna”, 17 gennaio 1720, pergamena in latino.
20) “Memoria in istanza per la successione alla eredità di Giulio de’ Medici, poi pontefice Clemente VII e d. Francesco de’ Medici granduca di Toscana, a favore del principe di Ottajano, e minuta di detta memoria”, 1738 novembre 21, cc. 23, a stampa.
21) “Memoria in istanza a favore del principe di Ottajano per essere immesso nel possesso di tutti i beni di Clemente VII e del granduca Francesco per conservare lo splendore della famiglia”, come sopra, cc. 4.
22) “Allegazione in istanza, perché il principe di Ottajano sia immesso nel possesso de’ beni de’ fedecommessi istituiti da Clemente VII e dal gran duca d. Francesco de’ Medici con loro testamenti del 30 luglio 1534 e 28 aprile 1582”, come sopra, cc. 12.
25) “Privilegio originale di Carlo III col quale il principe di Ottajano d. Giuseppe de’ Medici è nominato cavaliere del real ordine di San Gennaro”, 1740 dicembre 19, pergamena in spagnolo,
cc. 3. 27) “1743 a 1744. Atti pel fu reggente d. Francesco Santoro contra il principe di Ottajano, riguardano la tassa dimandata dal Santoro per i favori prestati nel sostenere i diritti di S.E. il principe di Ottajano d. Giuseppe de’ Medici sopra i beni ed effetti della Casa Medici in Toscana”, cc. 88 cucite.
29) “Scritture diverse relative alla vertenza per lo ricupero del fondo dei 300 luoghi di Monte della città di Firenze lasciati da d.ª Anna Maria Ludovica de’ Medici elettrice del Reno con suo testamento del 5 aprile 1739 all’agnato maschio della famiglia de’ Medici, e dal gran duca di Toscana ordinato darsi al sig. Nicolò de’ Medici, e licenza accordata da S.M. al sig. d. Giuseppe de’ Medici di poter ricorrere al gran duca suddetto per rivendicare il fondo suddetto; albero della famiglia de’ Medici”, 1744-1793, cc. 16.
30) Brani di lettere scritte dal principe di Ottajano, riguardanti la rivindica di beni nel Gran Ducato di Toscana”, 1739, cc. 4.
31) Avvertimenti proposti al principe di Ottajano, recandosi in Vienna per trattar la rivindica del Gran Ducato di Toscana”, s.d., cc. 2.
32) “Scritture diverse relative alla gita fatta dal principe di Ottajano in Toscana, agli avvertimenti ricevuti circa la sua condotta nel giungere in Vienna, ed una nota di scritture mandate in Firenze, e per una memoria informe del granduca di Toscana circa la fede delle delegazioni date da S.M. al principe di Piombino, e al duca di Iensi”, s.d. In realtà contiene solo una memoria in difesa del principe, cc. 2.
33) “Nota delle scritture mandate in Firenze per documenti a rivendicare i beni nella Toscana appartenenti al principe di Ottajano di Napoli”, s.d., cc. 2.
LE CONSEGUENZE DIPLOMATICHE E BELLICHE DEL COLPO DI STATO DEL 1711
La foris factura di Cosimo III non rimase però confinata sul piano giuridico. Essa ebbe conseguenze diplomatiche di vasta portata. La guerra di successione spagnola, conclusa con il Trattato di Utrecht (1713), non aveva visto la piena adesione della Spagna, che restava in conflitto latente con l’Impero. In questo contesto, la nomina dell’Elettrice Palatina aprì alla Spagna una prospettiva nuova: quella di avanzare pretese non soltanto sul Ducato di Siena, di cui era già titolare dell’Alto Dominio, ma anche sull’intero Granducato grazie al vincolo dinastico con la Regina Elisabetta Farnese, bis-nipote di Margherita de’ Medici. Caduti i fidecommessi sui beni in favore della primogenitura rivendicati dal Principe Giuseppe de’Medici di Toscana, Elisabetta diveniva la più prossima erede della straordinaria fortuna privata dei Medici.

La questione non era secondaria: i beni allodiali costituivano il tesoro insostituibile dello Stato toscano, necessario a garantirne la solidità finanziaria. Questi beni — palazzi, ville, collezioni artistiche, proprietà terriere e risorse economiche accumulate nei secoli — non erano mera ricchezza personale, ma rappresentavano infatti il nucleo indispensabile per garantire la sovranità, l’economia pubblica e la stabilità finanziaria dello Stato toscano. Senza di essi, il Granducato non avrebbe potuto reggersi autonomamente. La Spagna, facendo leva su questo argomento, cominciò a rivendicare non solo diritti successori, ma anche la necessità che la Toscana entrasse nella propria orbita politica.

Fu così che la crisi dinastica toscana, scaturita da una decisione interna e apparentemente prudenziale di Cosimo III, divenne il detonatore di un nuovo conflitto europeo. Già nel 1717 la Spagna avviò operazioni militari in Italia per riconquistare i domini perduti a Utrecht, dando avvio alla guerra della Quadruplice Alleanza (1717–1720). L’obiettivo di Filippo V ed Elisabetta Farnese era duplice: riprendersi Napoli, Sicilia e Sardegna e assicurarsi la successione sulla Toscana.
Il conflitto si concluse con il Trattato dell’Aia (1720). La Spagna fu costretta a ritirarsi dalle posizioni occupate, ma ottenne una promessa che avrebbe pesato enormemente sul futuro: al figlio di Elisabetta, Carlo di Borbone, sarebbero spettati, una volta estinte le linee maschili dei Farnese e dei Medici, il Ducato di Parma e Piacenza e il Granducato di Toscana.
Così, la scelta di Cosimo III del 1713 – un compromesso imposto dalla pressione interna – si trasformò nella premessa di una crisi internazionale che mutò radicalmente la storia della Toscana. Da feudo imperiale regolato dal diritto feudale, essa divenne una pedina nello scacchiere europeo delle compensazioni dinastiche, aprendo la strada alla fine della dinastia medicea e al predominio lorenese.
LO STERILE DIBATTITO GIURIDICO SULLA “LIBERTÀ DELLO STATO FIORENTINO”
La storiografia ufficiale toscana, tuttavia, non prese mai in considerazione le importanti motivazioni giuridiche e patrimoniali fin qui addotte. Per ragioni di opportunità locale – ovvero per non richiamare l’attenzione sul grave errore commesso dall’Antinori, dal Gondi e dal resto della classe dirigente – la narrazione venne deviata e impostata non sul diritto feudale imperiale (che prevedeva la successione di Giuseppe de’ Medici di Toscana), bensì su uno sterile dibattito giuridico avviato dal Marchese Neri Corsini, ambasciatore del Granduca Cosimo III.
Questo dibattito prese forma all’indomani del Trattato di Londra (1718), che durante la guerra della Quadruplice Alleanza aveva assegnato, su proposta inglese, l’eredità toscana a don Carlo di Borbone. Nell’agosto del 1720 il Corsini fu nominato plenipotenziario granducale al congresso di Cambrai, incaricato di difendere gli interessi della Toscana. Nei primi mesi del 1721 egli consegnò ai rappresentanti diplomatici presenti una memoria dal titolo Scrittura sopra la libertà di Firenze o Informazione sopra la pienissima Libertà et indipendenza da chi, che sia, del Dominio Fiorentino (ms. Cors. 1199, cc. 214r–235v), redatta da lui ma concordata con il segretario di Stato Montemagni.
In tale scritto il Corsini sosteneva la tesi dell’assoluta indipendenza dello Stato Vecchio fiorentino, negando esplicitamente le pretese feudali dell’Impero. Sebbene – come osservò Robiony – egli stesso non ne fosse del tutto convinto, lo scritto accese una battaglia storico-giuridica. Da parte imperiale furono subito approntate repliche: un Examen du mémoire sur la liberté de l’Etat de Florence (s. l., s. d.) e soprattutto una Exercitatio iuris publici de iure Imperii in Magnum Ducatum Etruriae, discussa all’Università di Lipsia il 9 dicembre 1721 da Johann Jacob Mascov.
Il Granduca fece rispondere con un trattato di Giovan Battista Averani, il De libertate civitatis Florentiae eiusque Dominii (Pisa 1721, ma in realtà stampato clandestinamente a Parigi dal Corsini stesso nel 1722), fatto circolare nelle corti europee per apparire come frutto accademico indipendente. Seguirono ulteriori risposte austriache, e così si sviluppò una lunga “guerra di opuscoli” che non portò alcun giovamento alla causa toscana.
Infine, il 25 ottobre 1723, Corsini non poté far altro che presentare a nome del Granduca una protesta formale, registrata negli atti del congresso: Protestatio Nomine Regiae Celsitudinis Magni Ducis Hetruriae diei XXV oct. 1723 adversus Tractatus initos aut ineundos super praetensa concessione eventualis investiturae Status Florentini (a stampa e ms. in Cors. 2013, cc. 569r–571r). Una protesta vana, che sanciva il completo isolamento della posizione toscana e l’inutilità di una linea difensiva costruita su argomenti volutamente divergenti dal diritto feudale imperiale.
LA TOSCANA CONTESA FRA GLI ASBURGO E I BORBONE
Dopo gli accordi del Trattato di Londra del 2 agosto 1718, la posizione della Toscana entrò in una fase di particolare complessità. In quel trattato, concluso nel contesto della guerra della Quadruplice Alleanza, l’Imperatore Carlo VI aveva formalmente acconsentito a una successione spagnola sul Granducato. Tuttavia, due anni dopo, con il diploma solenne del 12 giugno 1720 sottoscritto a Lussemburgo, egli riconobbe ufficialmente Giuseppe de’ Medici di Toscana, Principe di Ottajano, come Principe di Toscana e possibile erede.
Questo atto, apparentemente contraddittorio, aveva in realtà un significato chiaro: Carlo VI intendeva mantenere l’alto dominio imperiale sulla Toscana. Il riconoscimento a Giuseppe de’ Medici serviva non solo a riaffermare i diritti della linea agnatizia, ma anche a lasciare aperta la successione in conformità al diritto feudale e alla disciplina della foris factura, evitando di esporsi a critiche internazionali per aver violato i diplomi del 1530 e del 1569. L’Imperatore dimostrava così che, pur avendo firmato accordi con le potenze, non intendeva rinunciare al suo ruolo di supremo signore feudale.
In questo quadro, il fatto che Giuseppe de’ Medici fosse anche l’erede designato dei beni allodiali in virtù dei fedecommessi dinastici, rafforzava enormemente la sua posizione. Se questa eredità fosse rimasta in mano ai Medici, l’Impero avrebbe avuto in Toscana un dominio molto più stabile, e il conflitto con la Spagna avrebbe trovato minori possibilità di accendersi.
Tuttavia, gli equilibri europei si evolsero rapidamente. Dopo la fine della guerra della Quadruplice Alleanza e la pace dell’Aia (1720), la Toscana rimase sospesa in un equilibrio precario, fino a quando, nel 1735, la questione venne risolta nell’ambito della guerra di successione polacca. Con il nuovo decreto di investitura imperiale del gennaio 1736, Carlo VI assegnò il Granducato ai Lorena, tradendo di fatto i principi del diritto feudale e della foris factura che fino ad allora aveva invocato.
La possibilità di una successione di Giuseppe de’ Medici fu quindi fino all’ultimo una realtà diplomatica solida, riconosciuta dagli atti e dalle formule ufficiali dell’Impero. Tuttavia, la successiva storiografia toscana, costruita ad arte dagli Asburgo Lorena, cancellò questa memoria, nel timore che essa potesse riemergere come argomento di contestazione internazionale sul mancato rispetto del diritto feudale e delle investiture.
LO STATO DELLA CHIESA DURANTE LA GUERRA DI SUCCESSIONE SPAGNOLA E DELLA QUADRUPLICE ALLEANZA
All’alba del Settecento, mentre l’Europa intera si lacerava nelle guerre di successione, lo Stato della Chiesa si trovò sospeso fra due mondi: potenza temporale al centro della penisola italiana e, al tempo stesso, trono spirituale del Papato, da secoli arbitro delle sorti cristiane. Ma in quei decenni fatali, l’aura universale del Pontefice dovette misurarsi con la nuda realtà delle armi e con l’implacabile logica delle grandi monarchie.
Durante la Guerra di Successione Spagnola, Roma tentò disperatamente di conservare un fragile equilibrio. Luigi XIV, pur reclamando per suo nipote Filippo d’Angiò il trono di Spagna, guardava con sospetto alla Curia, accusandola di cedere al fascino della Casa d’Austria. Gli Asburgo, dal canto loro, non si limitarono alle pressioni diplomatiche: le loro truppe calarono nel cuore della penisola, minacciando direttamente i confini pontifici. Clemente XI esitò a lungo prima di riconoscere Filippo V, e quando finalmente lo fece, nel 1709, non fu per convinzione, ma per necessità, onde evitare di alienarsi la monarchia cattolica per eccellenza. Intanto Inghilterra e Olanda, padrone dei mari, relegavano Roma a spettatrice impotente, tollerandone l’autorità morale ma temendo ogni sua ingerenza. Alla fine del conflitto, il Papato era più isolato che mai: le potenze lo avevano usato come pedina, mai come arbitro.
Con la Guerra della Quadruplice Alleanza, l’illusione di un ruolo indipendente svanì del tutto. Le armate spagnole marciavano sull’Italia, guidate dall’ambizione di Filippo V e dall’audacia del cardinale Alberoni; ma la Curia, lungi dal sostenerlo, ne osteggiava le smanie guerresche. Ciò non impedì agli imperiali di imporsi con la forza, occupando i territori centrali della penisola e costringendo Roma a offrire sostegno logistico e politico. La Santa Sede si trovò così stritolata tra le ambizioni dei Borboni e l’egemonia asburgica, mentre Francia e Inghilterra osservavano da lontano, riducendo il Papa a mero garante di equilibri decisi altrove.
Fu il tramonto di un’illusione: se all’inizio della Guerra di Successione Spagnola il Pontefice poteva ancora illudersi di incarnare l’arbitro delle genti, all’indomani della Quadruplice Alleanza egli non era che un testimone silenzioso, un satellite dell’Impero, costretto ad assistere da spettatore all’implacabile recita del grande teatro europeo.
LA BOLLA PONTIFICIA DI PIO V DI INVESTITURA DELLA TOSCANA (1569)

LA BOLLA PONTIFICIA DI PIO V DI INVESTITURA DELLA TOSCANA (1569)
Nel complesso quadro delle trattative internazionali sulla successione toscana, un silenzio tanto eloquente quanto grave pesò su un punto essenziale: la totale assenza di riferimenti, da parte degli Stati europei, alla Bolla pontificia del 1569 emanata da Papa Pio V. Con questo solenne atto, Cosimo I de’ Medici e i suoi discendenti legittimi — o, in mancanza, gli agnati collaterali — erano stati investiti del titolo di Granduchi di Toscana in perpetuo, sotto la piena autorità della Sede Apostolica.
Se la Bolla fosse stata invocata nel corso delle trattative diplomatiche, le decisioni sulla successione al trono granducale avrebbero potuto assumere un orientamento del tutto diverso, specie negli Stati cattolici, vincolati al rispetto degli atti pontifici. La Bolla “ad perpetuam rei memoriam.” conteneva infatti una formula solenne di anatema: «Chiunque tenterà di contraddirla, sappia di incorrere nell’indignazione di Dio onnipotente e dei beati apostoli Pietro e Paolo». Pur non implicando automaticamente una scomunica pubblica nei tempi odierni, questa clausola obbligava i fedeli, allora come oggi, a un’obbedienza grave, sotto pena di colpa canonica.
Secondo il diritto canonico vigente nei primi decenni del XVIII secolo, chiunque avesse promosso, favorito o attuato il passaggio della Toscana a una dinastia diversa da quella indicata dalla Bolla — in assenza di una sua revoca formale da parte del Papa — si sarebbe reso passibile, ipso iure, di scomunica latae sententiae. Un principio tutt’altro che politico, fondato sull’autorità suprema del Pontefice, la cui giurisdizione si estendeva anche alla sfera temporale in casi d’interesse ecclesiale rilevante, quale era considerata la successione a una sovranità investita dalla Chiesa stessa.
Eppure, nella realtà storica, non risulta che la Santa Sede abbia mai emesso alcuna scomunica formale né pronunciato pubblicamente condanne contro le potenze che nel 1737 promossero e realizzarono il passaggio del potere dalla Casa Medici a quella degli Asburgo-Lorena. Questo silenzio, tuttavia, non equivaleva a una legittimazione dell’atto politico, bensì a un implicito riconoscimento della continuità della titolarità dinastica nella persona di S.A.R. Giuseppe de’ Medici di Toscana di Ottajano. In quanto agnato collaterale diretto di Cosimo I, Giuseppe assunse legittimamente il titolo di “Gran Duca e Principe Titolare di Toscana”, in piena conformità con la Bolla del 1569.
Tale assunzione non fu mai oggetto di censure ecclesiastiche né venne contestata dalla Santa Sede. Questo silenzio, nel contesto del diritto canonico e della prassi ecclesiastica del tempo, ha valore giuridico rilevante: qualora l’atto fosse stato contrario alla volontà pontificia, la Chiesa avrebbe adottato misure formali di condanna o avrebbe dichiarato la nullità dell’assunzione. Nulla di ciò avvenne. Al contrario, la trasmissione del titolo granducale nella linea medicea di Ottajano proseguì senza interruzioni, fondandosi su una legittimità giuridica, morale e dinastica non scalfita.
Così, fino ai nostri giorni, il titolo granducale è pervenuto nella persona di S.A.R. Ottaviano de’ Medici di Toscana, che non lo assume per iniziativa personale, ma lo eredita iure canonico et successorio quale diretto discendente del Principe Giuseppe, riconosciuto già all’epoca come legittimo successore della dinastia investita dalla Chiesa.

La mancata scomunica, l’assunzione legittima del titolo da parte di Giuseppe e la continuità dinastica che ne è seguita rappresentano dunque una triplice prova della validità canonica e della legittimità dinastica della titolarità medicea sul Granducato.
La questione della mancata imposizione del Principe Giuseppe
Sorge, a questo punto, una domanda inevitabile: per quale motivo, se l’Imperatore Carlo VI era alleato di Giuseppe de’ Medici, non impose apertamente la sua successione a Cosimo III e al Senato fiorentino, facendo leva sulla forza giuridica della Bolla pontificia e sulla minaccia di scomunica per chiunque l’avesse ostacolata?
La risposta si articola su più livelli. In primo luogo, nel 1713, la nomina dell’Elettrice Palatina come erede da parte di Cosimo III avvenne in un contesto internazionale ancora instabile. Il Trattato di Utrecht non era stato ancora accettato dalla Spagna e l’Impero non lo aveva sottoscritto. Qualsiasi mossa in favore di Giuseppe sarebbe stata interpretata da Madrid come un affronto diretto, rischiando di riaccendere il conflitto.
Nel 1720, invece, il clima politico era più disteso. L’Imperatore e Giuseppe erano alleati, tanto che quest’ultimo ricevette l’incarico di plenipotenziario per la consegna del Regno di Sardegna ai Savoia, nell’ambito del Trattato di Londra del 1718. Tuttavia, proprio quel trattato, siglato per isolare la Spagna, impediva qualsiasi azione unilaterale che potesse apparire come una provocazione: designare Giuseppe alla successione granducale in quel momento avrebbe fornito alla Spagna un valido pretesto per denunciare l’accordo e rilanciare la guerra.
Quanto all’uso della scomunica pontificia, sebbene tecnicamente giustificato, esso avrebbe comportato un coinvolgimento diretto della Santa Sede in una disputa politica ad alto rischio, rischiando di compromettere la neutralità della Chiesa e di aprire una frattura tra le potenze cattoliche. Per questo, la minaccia di scomunica, pur latente e formalmente applicabile, non fu invocata in modo esplicito.
Solo alla morte di Gian Gastone, il 9 luglio 1737, vennero meno i vincoli canonici e politici che ostacolavano l’assunzione del titolo da parte di Giuseppe. A quel punto, il suo diritto poté manifestarsi pienamente, iure pontificio et imperiale, senza più possibilità di contestazione o censura.
Il ruolo della Bolla nel contesto della foris factura
Resta tuttavia una questione centrale, connessa alla cosiddetta foris factura: perché, nonostante la decadenza morale e politica di Cosimo III e la sua violazione dell’ordine dinastico, né l’Imperatore né Giuseppe invocarono la Bolla del 1569 per accelerare la successione?
La ragione risiede nei limiti interni della stessa Bolla. Essa non prevedeva eccezioni né deroghe legate alla colpa politica o morale del successore. Pertanto, anche in caso di fellonia, l’ordine canonico imponeva di riconoscere il diritto di Gian Gastone, quale erede diretto maschio, fino alla sua morte. Qualsiasi anticipazione dell’investitura a favore di un agnato collaterale, come Giuseppe, sarebbe stata interpretata come violazione dell’atto pontificio stesso, esponendo i promotori al rischio di usurpazione e scomunica.
In definitiva, non fu la debolezza del diritto mediceo a impedire l’affermazione immediata di Giuseppe, bensì la forza vincolante della Bolla, che imponeva il rispetto dell’ordine successorio fino all’estinzione naturale della linea principale. Solo allora, e non prima, Giuseppe poté assumere legittimamente il titolo, nel rispetto pieno della legge pontificia e del diritto dinastico.
Fu questa coerenza giuridica, storica e canonica a preservare la legittimità della successione medicea, consegnandola ai posteri come linea titolare legittima del Granducato di Toscana.
TESTO ITALIANO DELLA BOLLA PONTIFICIA DI INVESTITURA GRANDUCALE A COSIMO PRIMO DE’MEDICI
PIO V, Vescovo, servo dei servi di Dio, a perpetua memoria del fatto. Il Sommo Pontefice, posto dal Signore sul trono elevato della Chiesa militante, sopra i popoli e i regni, secondo quanto è stato disposto, dopo aver esaminato con l’incessante acume del suo spirito le province del mondo cristiano, e con prudente circospezione valutato uomini illustri e principi che sembrano essersi segnalati per meriti verso la Santa Sede Apostolica e la fede cattolica, suole con singolare clemenza della sua benignità, per quanto gli è concesso dall’alto, promuoverli, ornarli con insigni onorificenze e splendidi titoli d’onore, e illustrarli; nonché altresì disporre secondo quanto ritenga giovevole in Dio, ponderando le circostanze di tempi, luoghi e persone. In verità, mentre in questi giorni assai luttuosi per noi, agitati da tempeste, il nostro animo si trovava profondamente turbato e addolorato per quanti e quali errori perniciosi e pestiferi eretici sorgessero ogni giorno da ogni parte, e per come semi funesti e distruttivi, seminati da uomini perduti devianti dalla fede cattolica, si diffondessero ovunque e si propagassero in ogni direzione — esaminando ogni parte d’Italia — la provincia dell’Etruria, celebre presso gli antichi per il suo decoro di nobiltà e per la sua antichità, ci è apparsa in modo particolare. Questa provincia, la cui parte maggiore è soggetta a noi e alla stessa Sede Apostolica, e confina da quasi ogni lato con la nostra giurisdizione ecclesiastica, e ad essa è congiunta, è oggetto della nostra particolare attenzione. Infatti, grazie in primo luogo alla grazia della divina bontà, poi alla nostra sollecitudine e vigilanza, e infine per la virtù, il consiglio e la diligenza del suo eccellentissimo e religiosissimo principe, essa è stata mantenuta integra e immune da simili perniciose infezioni e contaminazioni. A ciò si aggiunge un fatto che ci muove in maniera particolare: la Sede Apostolica, sia per la vicinanza della regione, sia per la sua favorevole posizione, ha ricevuto spesso graditi servizi, aiuti, e anche vantaggi forniti dagli Etruschi nel corso di molti secoli passati; tanto che anche i nostri predecessori Pontefici — in particolare Sisto IV, Innocenzo III, Clemente VII, Gregorio X, Benedetto XI, Martino V e Leone X — lo hanno attestato chiaramente, al punto che la medesima provincia, insieme con i suoi governanti e magistrati, per la particolare devozione e osservanza verso la Chiesa Romana, sono stati considerati degni di essere onorati e decorati con grazie, onori e privilegi di diritto, in spirito paterno. Considerando con debita riflessione queste circostanze, e osservando in particolare che il nostro diletto figlio, il nobile uomo Cosimo de’ Medici, Duca della Repubblica Fiorentina, mostra ogni giorno di più uno splendore esemplare di virtù, un ardente zelo per il culto della religione cattolica, e un eccellente impegno nell’amministrazione della giustizia — impegno che non ha mai tralasciato da quando ha cominciato a governare — e che in ogni occasione ha dimostrato prontezza e animo ben disposto verso noi, i nostri predecessori e la Sede Apostolica… Poiché egli (Cosimo de’ Medici) ci ha onorati fin dall’inizio del nostro pontificato con la dovuta riverenza e rispetto, ci ha obbedito con filiale ossequio ai nostri comandi, si è comportato in modo molto rispettoso verso le nostre giuste richieste, ci ha prontamente aiutato con denaro, fanteria e cavalleria quando gli abbiamo chiesto assistenza, specialmente per fornire soccorso al nostro carissimo figlio in Cristo, Carlo, Cristianissimo Re di Francia, contro i suoi ribelli ed eretici, arrivando anche, su nostro incoraggiamento, a prestargli centomila scudi d’oro oltre ad altri aiuti. Poiché egli promette anzi maggiori impegni, se sarà necessario, per la difesa e la crescita della fede cattolica; poiché, negli anni passati, per l’esaltazione e propagazione della fede, ha istituito la milizia di San Stefano, l’ha dotata di beni e l’ha promossa; poiché, per l’imperscrutabile giudizio di Dio, egli governa felicemente e con autorità suprema la città di Firenze e l’intera provincia dell’Etruria, alla quale è stato chiamato; poiché egli amministra mirabilmente il principato che gli è stato conferito, e lo conserva con incomparabile prudenza e saggezza nell’amabilità della pace e della giustizia fin dalla sua giovinezza; poiché si distingue tanto per terra che per mare; poiché è un fiero nemico dei pirati, dei criminali, degli assassini, dei perturbatori della quiete pubblica, e anche dei nostri ribelli e di quelli della Santa Sede, dei nemici e degli avversari, e un severo vendicatore dei delitti e dei colpevoli; poiché gode della benedizione di Dio con una popolazione numerosa e fedele, abbondanti rendite e profitti, e ampi proventi; poiché dispone di un potente esercito di fanteria e cavalleria pronto a ogni esigenza; poiché possiede numerose città floride, alcune delle quali sedi di chiese cattedrali e metropolitane, università per gli studi generali, porti fortificati, rocche molto sicure, località ben protette e una flotta di triremi preparata e armata tanto per la protezione del mar Tirreno quanto delle nostre coste marittime; poiché, infine, egli prospera, sorretto da una continua benedizione di vita felice, abbondanza di beni, ampiezza di dominio, fertilità dei luoghi, potenza militare e gloria di un popolo molto illustre e ricchissimo; poiché egli afferma e professa che tutti questi beni ricevuti per immensa benignità di Dio onnipotente saranno sempre posti al servizio della gloria e dell’onore divino; poiché, per diritto di dominio libero e diretto, egli non è soggetto ad alcuno, e quindi, secondo la distinzione del nostro predecessore Pelagio di pia memoria, deve essere considerato e ritenuto giustamente come Re e Granduca e Principe, e deve essere annoverato realmente tra gli altri Grandi Duchi e Principi; Noi pertanto, mossi da così tante e tanto giuste ragioni, e da chiarissimi motivi di merito e servizio da parte del medesimo Duca Cosimo verso di noi e verso questa Sede, e confidando fermamente che lui e i suoi successori si mostreranno riconoscenti per il beneficio ricevuto e continueranno a mostrarsi devoti, fedeli e rispettosi nei nostri confronti e verso i futuri Sommi Pontefici, considerando anche, ciò che ha per noi grande importanza, che il detto Cosimo Duca, e il suo primogenito, il nobile giovane Francesco, sono legati da stretta parentela, sangue e affinità con il nostro carissimo figlio in Cristo, Massimiliano, Imperatore eletto, e con i più grandi Re del nome cristiano, e che essi discendono dalla nobilissima stirpe Medicea, già decorata con molti onori e titoli, dalla quale sono usciti tanti illustri personaggi, e ben tre Sommi Pontefici: Pertanto, volendo mostrare a detto Cosimo Duca uno speciale favore e grazia paterna, lo dichiariamo solennemente assolto da ogni scomunica, sospensione, interdetto o altra censura ecclesiastica, pena o condanna, a qualunque titolo irrogata, sia di diritto che da persone, e per qualunque motivo, nella misura necessaria per l’efficacia del presente atto. Con nostra autorità apostolica, motu proprio, non per istanza del Duca o di altri, ma per nostra certa scienza, matura deliberazione e pura liberalità, sulla base della pienezza del potere apostolico che ci compete e seguendo l’esempio dei nostri predecessori, come Alessandro III, Innocenzo III, Paolo III e altri Sommi Pontefici che hanno conferito titoli regali o ducali a vari principi (come il re del Portogallo, di Bulgaria, di Blachia, di Irlanda, e il Duca di Boemia con il titolo di Re), noi creiamo, costruiamo, proclamiamo e dichiariamo Cosimo Duca e i suoi successori Duchi esistenti sempre come Granduchi e Principi della provincia dell’Etruria, soggetta per la sua maggior parte alla loro autorità, con il titolo di “Gran Duca di Toscana”. Li eleviamo e ampliamo con questo titolo di Granduchi d’Etruria, e ordiniamo che siano chiamati, nominati, considerati e trattati da tutti come Granduchi e Principi della detta Etruria, e che godano di tutti i privilegi, onori, immunità e prerogative di cui godono altri Granduchi, Principi e Signori indipendenti e sovrani, sia in generale che in particolare, in qualsiasi luogo, cerimonia, celebrazione, processione, sia anche nella nostra corte vaticana, e dovunque nel mondo. Anche se siano presenti altri Duchi e Principi, essi (Cosimo e i suoi successori) debbono essere trattati allo stesso modo, senza alcuna differenza, e godere di tutti i diritti, prerogative e onori spettanti a chi esercita un’autorità piena, libera e sovrana. Volendo noi dare una testimonianza chiara e un segno della nostra benevolenza verso il detto Cosimo, Granduca, e manifestare in modo certo il nostro affetto, ritenendolo degnissimo di ricevere le più alte grazie e i più ampi favori, stabiliamo, secondo il principio già affermato dal nostro predecessore Papa Clemente III, che maggiore sia l’onore visibile, maggiore deve apparire la dignità, e per questo motivo concediamo che il suddetto Cosimo, Granduca, e i suoi successori, possano portare, usare, raffigurare e far incidere liberamente e legittimamente una corona reale — come abbiamo ordinato che sia raffigurata qui di seguito — al di sopra delle loro insegne gentilizie, per rendere più illustre, nobile e ornata la loro persona. Noi conferiamo, onoriamo e adorniamo lui e i suoi successori con tale distinzione, per nostro moto proprio, certa scienza, e con pienezza di potestà apostolica, come se questa concessione fosse stata fatta in concistoro con il consenso dei nostri fratelli cardinali e letta nel nostro segreto concistoro. Dichiariamo che queste lettere non potranno mai essere considerate nulle o impugnate per alcuna causa, anche se giusta, urgente o ragionevole, né per pretesi difetti di surrezione, obreptionis (cioè vizi formali o materiali), mancanza di intenzione o per qualsiasi altro motivo, nemmeno il più lieve. Esse devono essere valide e efficaci in perpetuo, e devono produrre pieni, totali e perfetti effetti in tutto e per tutto, come se fossero state emesse con tutti i procedimenti formali previsti dal concistoro, e devono essere così intese e interpretate da qualunque giudice, anche imperiale, regale, ducale o di altra eccellenza o dignità, nonché da ogni commissario di qualunque autorità, dai nostri uditori del Sacro Palazzo Apostolico, e dai Cardinali della Santa Romana Chiesa. A tutti costoro, e a ciascuno di essi, revochiamo ogni facoltà e autorità di giudicare, sentenziare, decidere o interpretare diversamente, e dichiariamo irritante e nullo qualsiasi tentativo fatto in senso contrario da chiunque, con qualsiasi autorità, sia che lo faccia consapevolmente sia per ignoranza. Non ostano a quanto qui stabilito: • Costituzioni e ordinanze apostoliche, • Statuti o consuetudini di province, città o luoghi anche confermati da giuramento, approvazione apostolica o altri mezzi di conferma, • Privilegi, indulti, lettere apostoliche già concesse anche a Duchi o altre persone che abbiano ricevuto dalla Sede Apostolica concessione di godere di privilegi simili a quelli dei Granduchi o come se già fossero Granduchi in tutto o in parte. A tutto ciò deroghiamo espressamente e totalmente solo per il presente caso, e consideriamo qui sufficiente il riferimento generale a questi testi, anche senza doverne fare menzione specifica, parola per parola. Tutto quanto eventualmente contrario a ciò viene esplicitamente revocato. Rimane tuttavia salva la giurisdizione, autorità e potestà della nostra Sede Apostolica, e dei Re e degli Imperatori, nei territori o città della provincia d’Etruria che non appartengono al dominio del detto Cosimo, Granduca, né gli sono in alcun modo soggetti o obbedienti. Nessun pregiudizio dovrà recarsi a città, terre o luoghi dell’Etruria che non fanno parte dei suoi domini. Pertanto, nessuno, in alcun modo, abbia il permesso di violare questo nostro atto di assoluzione, creazione, costituzione, proclamazione, dichiarazione, amplificazione, volontà, precetto, comando, decorazione, adornamento, investitura e deroga — né osi temerariamente opporvisi. Chiunque tenterà ciò, sappia di incorrere nell’indignazione di Dio onnipotente e dei beati apostoli Pietro e Paolo. Dato a Roma, presso San Pietro, nell’anno dell’Incarnazione del Signore 1569, il sesto giorno prima delle Calende di settembre (27 agosto), nel quarto anno del nostro pontificato.
[Sottoscritto da:] Ca. Glorierius in quale provvedimento di pena o di scomunica
LA BOLLA DI PIO V E LA SUA PERDURANTE VALIDITA’
Un elemento troppo spesso dimenticato, ma decisivo per comprendere la vicenda della successione toscana, è la Bolla solenne di Papa Pio V del 1569, con la quale veniva riconosciuto a Cosimo I de’ Medici e ai suoi discendenti il titolo granducale. La Bolla non si limitava a conferire un titolo: essa vincolava, con la forza di un anatema, chiunque avesse tentato di violarla, dichiarando che tale atto avrebbe attirato su di sé «l’indignazione di Dio onnipotente e dei beati apostoli Pietro e Paolo».
In base al diritto canonico tuttora vigente, gli atti papali di questo genere hanno natura perpetua e irrevocabile, a meno di esplicita abrogazione da parte di un altro Pontefice. Il Codice di Diritto Canonico del 1983, al canone 333 §3, stabilisce chiaramente che «Contro i giudizi o i decreti del Romano Pontefice non è ammesso alcun ricorso né appello». Ne consegue che un atto pontificio emanato motu proprio con la piena potestà apostolica – come appunto la Bolla del 1569 – mantiene la sua validità per sempre e non può essere disapplicato da alcuna autorità inferiore, né laica né ecclesiastica.
La violazione o la manipolazione di tale Bolla non è dunque soltanto un atto storico di infedeltà politica, ma costituisce anche, sul piano ecclesiastico, un atto sacrilego. Il diritto canonico prevede pene severe per chi neghi o ostacoli i diritti derivati da simili atti pontifici: dall’interdetto fino alla scomunica latae sententiae (automatica), nei casi più gravi di ribellione o disobbedienza pubblica. Ancora più pesanti sarebbero le conseguenze se a compiere tale atto fossero chierici, vescovi o cardinali, i quali, per la loro condizione, incorrono in responsabilità ancora più gravi davanti alla Chiesa.
Oggi, la clausola dell’anatema non implica più necessariamente una scomunica immediata, ma conserva il suo valore morale e giuridico: l’offesa pubblica contro un atto di questo rango resta un peccato grave e un segno di aperta ribellione all’autorità del Papa.

Per queste ragioni, si deve concludere che chiunque osi contraddire o ignorare la Bolla granducale di Pio V non può in alcun modo considerare legittima la propria posizione. Un simile comportamento significherebbe violare un atto solenne della suprema autorità della Chiesa, emanato in perpetuo e protetto da anatema pubblico.
È quindi un dovere morale e giuridico – soprattutto per gli Stati cattolici e per la stessa storiografia che si confronta con questa vicenda – riconoscere e non contraddire la validità di tale Bolla. Essa non è soltanto un documento storico, ma un atto fondativo dell’ordine granducale, parte integrante del patrimonio giuridico e spirituale della Chiesa e dell’Europa.
(CONTINUA)



